martedì 30 gennaio 2018

SHADOW OF THE COLOSSUS: RECENSIONE!


Con passo lento e grave, un destriero dal manto corvino avanza sul sentiero roccioso che conduce ad una valle proibita. In sella un ragazzo silenzioso, e una salma lugubre e pallida, avvolta nel suo sbiadito sudario. Il viaggio di Shadow of the Colossus, oggi come tredici anni fa, comincia così: con un drappello funebre, le note di una melodia malinconica, e un lungo ponte sospeso su una terra misteriosa. Proprio come allora, i momenti inaugurali del grande capolavoro di Fumito Ueda riempiono il cuore di una meraviglia inebriante, un guizzo di curiosità e di nostalgia.
Il remake sviluppato dai ragazzi di Bluepoint Games compie il suo miracolo già in questi primi attimi di gioco, quando lo sguardo si posa su impervie pareti rocciose, e corre poi verso le architetture monumentali di un regno solitario. Tutto è ancora al suo posto: le inquadrature potenti e magniloquenti, l'atmosfera selvaggia e sospesa. Fin da subito è chiaro, insomma, che la conquista più grande di questa riedizione sia quella di riproporre il gioco esattamente com'era nei nostri ricordi: maestoso e bellissimo.



Dal momento che la memoria tende a conservare più che altro le sensazioni, operando invece sulle immagini digitali un nebuloso processo di attualizzazione, l'unico modo per raggiungere l'obiettivo era quello di restaurare integralmente il colpo d'occhio dell'opera originale. Questo "nuovo" Shadow of the Colossus non ha suffissi né sigle tecniche perché è un remake vero e proprio, un attento lavoro di ricostruzione dell'immaginario, del mondo di gioco, dei suoi personaggi. Buona parte del codice è quello originale, ma le texture e i modelli poligonali sono tutti nuovi, così che il titolo sembri integralmente costruito negli anni di questa generazione.
Senza l'urgenza di tracciare nuovi standard qualitativi, il risultato resta efficace, d'impatto, ed esalta in maniera convincente quasi tutte le sfumature della poetica di Ueda. Le Lande Proibite escono quasi trasformate dal processo di ammodernamento tecnico, remote e silenziose, ammantate da un sussurro di pacifica desolazione. Un sole abbacinante si infrange sulle distese erbose e sulle rocce slavate, mentre foreste ombrose sorgono ai margini delle praterie, e grandi distese di sabbia, e laghi dalle acque cristalline, delimitano i confini di questo regno dimenticato.
Grazie al nuovo sistema di gestione delle fonti luminose, ed alla completa ricostruzione di ogni elemento scenico, il mondo di gioco rifiorisce, estasi visiva per chi già ne ha calcato il suolo e curiosa scoperta per chi ha deciso di "profanarlo" solo oggi.
Ed è importante che sia così, perché le Lande Proibite sono più che uno scenario, in Shadow of the Colossus: sono un protagonista inerte, a loro modo un altro colosso da sfidare. Sono l'incarnazione della solitudine, un luogo eterno alla fine di ogni cosa, un lembo di mondo così strettamente necessario per un protagonista il cui nome già nasconde il suo destino.
Dopo aver raggiunto l'edificio che svetta al centro di quest'area, Wander poggia su un altare il corpo senza vita di una giovane donna. I tratti ancora meravigliosi, il volto sfuggito alla rigidità propria della morte. Non sapremo altro di lei, del perché la sua anima abbia lasciato questo mondo. Il racconto di Shadow of the Colossus, così come tutti quelli di Ueda, resta volutamente ermetico, in linea con la scrittura sottrattiva che pure muove ICO e The Last Guardian.



Capiamo tuttavia che Wander ha raggiunto le Lande Proibite con l'intenzione di salvare la ragazza, di riportare la sua anima nel regno dei vivi. Ed è questa la promessa che gli fa Dormin, un'entità misteriosa che si manifesta attraverso una voce celeste. Gli assegna un compito: distruggere i sedici idoli che si ergono ai lati della sala.
È durante questo dialogo che emergono le poche "storture" del remake, problemi legati più che altro alla "conservazione" del senso originale dell'opera di Ueda. Un moto di sorpresa del giovane protagonista, una mimica facciale che sembra esaltare il dolore piuttosto che la determinazione: un'espressione triste, insomma, che sostituisce uno sguardo vitreo. Sono piccolezze che in molti neppure noteranno, eppure in qualche maniera sembrano cambiare la percezione di un personaggio che nel titolo di base sembrava mosso da un proposito incrollabile e consapevole del doloroso epilogo a cui sarebbe andato incontro.
Gli idoli, ci informa Dormin, non possono essere distrutti dalla mano dell'uomo. L'unico modo di frantumarli è quello di uccidere gli esseri che rappresentano, gli immensi Colossi che abitano quelle terre, bestie titaniche dalla mole smisurata.
Si diceva che quello di Shadow of the Colossus è un racconto misterioso, ma questo non significa che si rifiuti di parlare al giocatore. Nella distruzione degli idoli, ad esempio, è facile vedere un terribile atto di apostasia, il rifiuto integrale del proprio credo, o comunque di quello del proprio popolo. Se davvero i totem silenziosi che dobbiamo demolire raffigurano i colossi, è lecito pensare che questi ultimi rappresentino qualcosa di sacro per la gente di Wander. Durante il suo viaggio il protagonista si macchia quindi di una colpa terribile, compie un atto depravato e folle. Questo è, in fondo, Shadow of the Colossus: un'epopea alla scoperta di un peccato imperdonabile, e una silenziosa riflessione sulla sua natura.

Leggendo al contrario il nome di Dormin, poi, diventa facile perdersi in un sottile intreccio di rimandi alla mitologia biblica, scoprendo che Nimrod fu il Re babilonese che ordinò di costruire la torre di Babele, utopica struttura per raggiungere il cielo e toccare la divinità, e per questo il suo corpo fu spaccato in sedici pezzi e sparso agli angoli del regno.
Mettendo da parte le interpretazioni del racconto (ma voi non fatelo, una volta concluso il viaggio di Wander), non resta quindi che lanciarsi nell'impresa, e raccontare che cosa sia Shadow of the Colossus a quei pochi che ancora non lo sanno.

Il solo obiettivo di Wander è quello di eliminare i sedici Colossi che abitano le Lande Proibite. Ogni elemento di gioco ruota attorno a quell'unico, gravoso compito. Sparsi per queste terre di confine troviamo alberi contorti che ci possono nutrire coi loro frutti, per incrementare la nostra salute, e sfuggenti lucertole dalla coda adamantina, che una volta recisa e raccolta migliorerà la resistenza del protagonista. Si tratta di semplici diversivi che non distolgono l'attenzione dal nucleo ludico della produzione: trovare un colosso, studiarlo, affrontarlo in una battaglia mortale.


Inseguendo il raggio di luce riflesso dalla spada di Wander solchiamo le distese eterne che ci separano dalla preda. Il nostro destriero è nobile e indomito, e non sempre si lascia condurre dove vogliamo. In questi momenti di incontro con valli e praterie, con ponti rocciosi sospesi nel vuoto e deserti sconfinati, con strutture misteriose costruite da chissà quale civiltà, prevale di solito un silenzio sconcertante. La telecamera si allontana dal protagonista per inquadrare un orizzonte sconfinato, una terra placida e seducente.
Raggiunto il bersaglio comincia una sfida di testa e di cuore. I Colossi sono creature letteralmente gigantesche, che sovrastano Wander con la loro stazza imponderabile. La lotta è impari. Per avere la meglio su ognuno di essi sarà necessario capire come avvicinarsi al suo corpo, come scalarlo, dove lacerarlo. Che sia un'enorme salamandra strisciante, un serpente marino pronto ad emergere dalle profondità, un rapace immenso che cerca di ghermirci in picchiata, o una mastodontica creatura antropomorfa che brandisce un'arma altrettanto ciclopica, affrontare ogni Colosso richiederà spirito di osservazione e prontezza.



È difficile ricondurre la struttura di Shadow of the Colossus a quella di un gioco tradizionale: potete pensare ad ogni avversario come ad un singolo, enorme livello di gioco, oppure ad un "puzzle in movimento", da risolvere con lo studio attento della sua gestualità. Ma la verità che il capolavoro di Fumito Ueda è tale anche perché nessun altro gioco è come lui. Shadow of the Colossus è unico, diverso, fieramente lontano da ogni categoria. E soprattutto coerente dall'inizio alla fine, incurante di presentare al giocatore una progressione in qualche maniera più tradizionale, leggibile. Anche per questo resta, nella trilogia di Ueda, il titolo più coraggioso, quello più sperimentale: il fatto che questi aggettivi possano essere usati ancora oggi per descrivere il remake dice molto della forza dirompente che il gioco ebbe tredici anni fa.Le meraviglie della fluiditàIl remake di Shadow of the Colossus corre (quasi) senza inciampi a 60 fps su PRO e 30 su PlayStation 4 "regolare", mantenendo la risoluzione ancorata a 1080p. Rispetto alla rimasterizzazione uscita sull'hardware della scorsa generazione, il risultato è impressionante, soprattutto se consideriamo la qualità dei nuovi asset. Per ottenere questo risultato, tuttavia, qualcosa si è dovuto sacrificare sul fronte del filtraggio delle texture e sul caricamento degli elementi poligonali: galoppando in sella ad Agro, ad esempio si nota che il tappeto erboso di fronte al protagonista tende a comparire all'improvviso, con un effetto non proprio piacevole alla vista. D'altro canto la profondità di campo è impressionante: un dettaglio importante per un titolo che lavora in maniera così potente sulle prospettive e decide di veicolare, quasi costantemente, il senso di una vastità soverchiante. Su PS4 PRO è anche possibile preferire un incremento della risoluzione, che può essere fissata a 4K, al prezzo di un dimezzamento del framerate. I 30 fps sono stabili, ma chiunque abbia memoria dei problemi che affliggevano il gioco originale o abbia sofferto di fronte ai singhiozzi di The Last Guardian, non avrà dubbi: la fluidità prima di tutto.

Pur considerando che i lavori di questa edizione non sono stati supervisionati da Ueda (che non è stato minimamente coinvolto nel progetto), il nuovo Shadow of the Colossus sta molto attento a conservare lo spirito originale dell'opera. Lo fa, ad esempio, decidendo di mantenere praticamente inalterato il sistema di movimento di Wander. Scalare il corpo dei Colossi resta un'impresa ardua, faticosa. Una volta capito come avvicinarsi alla preda bisogna aggrapparsi alle asperità della sua pelle, ai peli che crescono su di essa, alle antiche bardature che indossa. Cercando al contempo di resistere agli scossoni, ai movimenti feroci con cui ognuno cerca di disarcionarci. E poi colpire, con la spada, i punti deboli che si manifestano con un tenue luccichio.
Le animazioni ed il sistema di controllo trasmettono in ogni momento la sensazione di fatica del protagonista, l'affanno di quei gesti. E, forse, anche il peso del peccato che attraverso di essi stiamo compiendo. L'uccisione di ogni Colosso è tormentata non solo dal punto di vista motorio (precisa scelta di design piuttosto che soluzione anacronistica), ma anche da una prospettiva etica. Indomabili e selvaggi, i Colossi sono imponenti meraviglie della natura, creature a loro modo fragili e senza difese. Lenti, pachidermici, completamente in balia della piccola spada di Wander. Ogni volta che uno di loro muore, contorcendosi fra gli spasmi di un dolore indicibile, e riversando nell'aria un fiotto di polvere nera, sentiamo di aver ucciso qualcosa di bello.
Shadow of the Colossus è questo, dall'inizio alla fine. Un gioco fatto di contrasti, di tormenti, di sofferenza. Un gioco di brividi e lacrime, bellissimo e terribile, che dice tanto senza quasi una parola.
Oggi come tredici anni fa, è un gioco impossibile ma necessario, che lascerà una traccia indelebile nella vostra memoria, e una splendida cicatrice nel vostro cuore di giocatori.
Rileggo quello che ho scritto e non riesco a dargli un nome. È un testo che non si è lasciato condurre nella direzione che mi ero prefissato, scappando qua e là come se ogni istante volesse inseguire spunti nuovi. Assomiglia a tratti a un racconto nostalgico, memoria accorata di un tempo che ha forgiato la mia coscienza di videogiocatore. Un po' è analisi interpretativa dei sottotesti di Shadow of the Colossus, un po' disamina tecnica (ma poco, anche se di solito si lascia più spazio alle questioni grafiche, quando si parla di remake). Di fronte all'opera di Ueda, al suo ritorno in grande stile, ai problemi di attribuzione che una riedizione del genere porta con sé (visto che manca la mano dell'autore), io non riesco a reagire in altro modo. Mi viene da pensare che sia giusto così. Shadow of the Colossus è un patrimonio ludico che andrebbe raccontato da una prospettiva squisitamente personale, che non merita di essere ricondotto ad una dimensione analitica, clinica, asettica. È un titolo soverchiante, in tutti i sensi, rimasto fino ad oggi bellissimo e immutabile, e riscopertosi, anche senza Ueda, mutato e bellissimo. Giocatelo, come volete, dove volete. Quella che avete a disposizione è una riedizione meravigliosa dal punto di vista tecnico, che ha molto rispetto per l'opera originale e riesce ad attualizzarne il colpo d'occhio in maniera miracolosa. Eppure, per un prodotto del genere, dal design essenziale e sottrattivo, ogni aggiunta e ogni modifica rappresentano un potenziale pericolo alla conservazione della visione originale. Il paradosso è che quello di Shadow of the Colossus è uno dei più bei remake di sempre, senza essere un'opera propriamente canonica. Questioni del genere, lo capisco, non necessariamente interessano a chi scoprirà il gioco per la prima volta. Per tutti i “fortunati ritardatari” Shadow of the Colossus sarà un titolo unico, coraggioso, indescrivibile. Magnifico nella sua coerenza e valorizzato dai suoi stessi limiti. Come tutte le creature fragili e rare, anche Shadow of the Colossus rappresenta una specie a rischio. L'unica cosa che dobbiamo fare, come giocatori, è impegnarci per salvarlo dall'estinzione.

VOTO: 8,8

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