La questione è soprattutto semantica. Secondo le categorie dell'epoca ormai sfiorita del gaming a 128 Bit, The Evil Within sarebbe da considerare un gioco Horror. Ed in effetti l'ultima fatica di Shinji Mikami rappresenta con tutta probabilità l'eredità più brillante del filone inaugurato da Biohazard: splendido relitto di una vera e propria Età dell'Oro per il genere, che veleggia come un fantasma pallido nei mari tumultuosi della next-gen, intenzionato ad infestare le nuove console con la sua presenza lugubre e spettrale.
The Evil Within, tuttavia, non spaventa. All'opera di Mikami non interessa ibridarsi con le avanguardie dell'orrore “indipendente”, con le fughe di Amnesia e i nascondini terribili di Outlast: non cerca neppure di scuotervi alla maniera degli slasher movie, con apparizioni imprevedibili e improvvise. The Evil Within preferisce stare fuori dal tempo, nella penombra che genera mostri.
Resta immobile come un corpo morto, a guardarvi dentro, raccontandovi una storia malata e disturbante. Lo fa giocando con l'immaginario turpe e deforme dei film di Hollywood, con i simbolismi ermetici dell'horror nipponico, e poi andando a recuperare i frammenti più preziosi dalle nostre memorie di videogiocatori antichi.
The Evil Within, nel suo classicismo incorruttibile, è la manifestazione videoludica di un'ansia angosciosa, dolente, incarnazione del dubbio e del rimosso. Anzi: dell'insanità.
Il racconto di The Evil Within è subdolo e surreale. Comincia in maniera triviale, abitudinaria, infilandosi direttamente in uno dei tanti clichè di genere e poi sbrigandosi a rodere la debole cornice, per appenderci alla sua struttura calcolatissima e trascinarci nei reami dell'implausibile.
La storia del detective Castellanos si fa immediatamente torbida, confusa: fin da subito c'è il sospetto che sia solo il parto di una mente folle, un collage di diapositive rugginose ammucchiate nel cervello bacato del nostro protagonista. Chiuso in un manicomio, Castellanos è come intrappolato in un incubo, che ricomincia ogni volta che si guarda allo specchio.
Il plot sembra come costruito da tante schegge infilate nel cranio, che innescano ricordi ed emozioni. Sulle prime sembra quasi un modo un po' capriccioso con cui Mikami vuole spostarsi da un contesto all'altro: la fotografia di una rocca cadente materializza memorie dolorose, palazzi fatiscenti e villaggi cancerosi si alternano quasi senza soluzione di continuità, assieme ai volti, alle immagini carichi di presagi, ai mostri che raccontano una terribile mitologia del dolore.
In verità si scopre, avanzando di buona lena di capitolo in capitolo, che la trama di The Evil Within è una delle componenti migliori e più riuscite della produzione. Perdonata qualche leggerezza nella sceneggiatura, quando i fili del racconto cominciano ad essere tirati si assembla un disegno ben ordito, convincente anche se non rinuncia del tutto a qualche stereotipo un po' classico.
Non ci sono grossi colpi di scena, ma rivelazioni ben dosate, che prima si affacciano tra le righe di qualche diario, e poi divampano con la forza purificatrice di un fuoco immaginato. La mescolanza di immagini e ricordi clandestini compone un racconto non lineare, come se ci trovassimo di fronte alla versione putrefatta e decomposta di Memento. La follia, il trauma, l'urgenza di rimuovere chirurgicamente un dolore insopportabile, e poi l'inevitabile riaffiorare del rimosso: questo collage della sofferenza è studiato ottimamente e giustifica in maniera intelligente ed elegante la presenza di giganti sfigurati, bestie deturpate e creature dai tratti più sibillini. Dall'intimismo angoscioso al gore, dall'introspezione tipica di Silent Hill fino alle viscere esibite dai Resident Evil, la voracità con cuiThe Evil Within ingurgita e digerisce registri diversissimi è quantomai esemplare, e stacca di diverse lunghezze quella di tanti altri horror moderni, meno creativi e fantasiosi nell'esibire le loro deformità.
The Evil Within è il figlio illegittimo di Resident Evil 4. O forse - così distante dall'iconografica classica della saga - è Resident Evil 4 che non è mai stato un vero e proprio Bio Hazard.
Il nuovo lavoro di Mikami torna ad abbracciare quell'estetica smorta e polverosa, fatta di colori consumati, che ha caratterizzato la seconda avventura di Leon Kennedy. Non solo le atmosfere, ma anche i luoghi sembrano gli stessi: e poi c'è l'ossessione per la ritualità, l'ansietà degli assedi, tanto che viene da pensare che The Evil Within non sia una “copia carbone”, ma la realizzazione più piena di una visione limpida e precisa, che nei “limiti” della mitologia ideata da Capcom non aveva potuto realizzarsi completamente.
Gli appassionati di Survival Horror, comunque, cadranno ammaliati dopo pochi minuti: con la telecamera così vicina al corpo del protagonista, l'inquadratura sempre soffocante e concentrata, i movimenti appesantiti ed il peso tangibile di ogni fucilata, The Evil Within recupera integralmente le meccaniche di gioco di illustri predecessori, senza voler aggiungere davvero nulla alla formula.
Ne risulta un titolo per certi versi un po' spigoloso, almeno per chi è abituato ai ritmi più tesi degli action moderni, ma proprio per questo diverso e bellissimo. Qui l'inerzia dei movimenti rappresenta anzitutto un peso esistenziale, una lotta faticosa contro l'oblio e l'orrore, una scelta che impone una cadenza precisa e dura. Si fa tanto parlare di strutture ludiche antiche, sfiorite, e The Evil Withindimostra che invece un'adesione così risoluta ai canoni di quindici anni fa può ancora funzionare.
In certi momenti -è vero- l'impianto tende a scricchiolare un po', quando gli scontri si fanno più estesi ed estenuanti, quasi fiaccando la resistenza del giocatore. Non si tratta dei boss fight tesi e inquieti, quanto dei momenti in cui si è soverchiati dal numero di avversari e si deve per forza dar fondo alle riserve di munizioni, trovandosi a sparare per qualche minuto di troppo.
Ma al gioco si perdona anche questo, quando si capisce che oltre alla componente action, The Evil Within recupera anche l'anima Survival sparita da troppo tempo dalla saga Capcom.
Le munizioni scarseggiano, così come i fiammiferi con cui possiamo dar fuoco ai nemici storditi o ai loro corpi morti, e la difficoltà di trovare oggetti curativi ci costringe spesso e volentieri ad avanzare fiaccati dal dolore, zoppicanti, sul limite sempre rischioso fra una schivata riuscita e una mazzata pronta a spappolarci la testa.
Ogni colpo esploso diventa pesante, prezioso, perché si avverte sempre la possibilità di restare inermi, con una pistola dal caricatore vuoto ed un solo pallettone.
In questo senso, il sistema di progressione del personaggio -che permette di migliorare non solo le statistiche di base ma anche il quantitativo di scorte che è possibile trasportare- è semplice ma efficace. Non proibitivo ma neppure troppo morbido, richiede di fare delle scelte ben ponderate.
E insomma pure mettendo in conto l'evidente pesantezza del sistema di controllo, in The Evil Withinfunziona proprio tutto, anche grazie ad un design delle ambientazioni che non ha paura di farsi articolato e permettere qualche digressione. Al titolo di Mikami manca solo il backtracking ben dosato dei migliori Resident Evil (Code Veronica resta imbattuto), e pure il puzzle solving di qualità. La linearità di una struttura a capitoli resta evidente ma non opprimente, mentre i rimpianti per l'assenza di qualche enigma aggiuntivo si fanno sentire proprio quando ci si imbatte nei (rari) puzzle più riusciti, silenziosi e intelligenti.
Se avesse osato un po' di più su questi fronti, The Evil Within sarebbe stato un survival smisurato. Ma anche nella sua forma attuale rimane un eccellente “ritorno di fiamma”, la nuova pietra miliare di un genere rimasto disperso per troppo tempo, che aveva evidentemente bisogno di buone idee piuttosto che di grosse innovazioni.
Ormai li conosciamo, i problemi dell'id Tech 5: un peso francamente incomprensibile dei pacchetti di texture ed una generale pesantezza dell'engine, che nella versione PC di The Evil Within si manifestano in requisiti consigliati “da paura”. Su PlayStation 4 i “sintomi” sono texture caricate in ritardo (pop-in) e -nei primi capitoli dell'avventura- un bel po' di rallentamenti che inizialmente sembrano preoccupanti.
In verità le cose si stabilizzano in fretta, almeno sul fronte della fluidità, e quel che resta è una scena sempre molto carica di dettagli, eccezionalmente coreografata, soprattutto grazie al lavoro splendido sull'illuminazione e sui particellari.
L'aliasing è moderato ma non sparisce mai del tutto, ma in generale il colpo d'occhio stupisce per via della caduta della luce, delle fonti di illuminazione che ora si fanno quasi violente, e debordano, e invadono lo schermo, ora invece vengono inghiottite dal nero bituminoso delle stanze tetre. Oltre che di una discreta presenza poligonale (eccellente nel modello del protagonista e meno in quelli dei comprimari), il merito di un look così riuscito resta comunque della direzione artistica impeccabile ed espressiva. Come si anticipava sembra spesso e volentieri di trovarsi di fronte ad una versione Next-Gen di Resident Evil 4: un filtro sporco e i colori slavati si concretizzano in una “fotografia” molto cruda, brutale, che ci presenta fangosi villaggi dimenticati e cimiteri antichi, roccaforti medievali e chiese gotiche. Qui ci sono anche interni più oppressivi, claustrofobici, invasi dal colore del sangue o dai riflessi del fuoco, oppure abbandonati a marcire, come quelli tetri dei primi Silent Hill. In preda al citazionismo più estremo The Evil Within ci fa incontrare corridoi senza fine, stanze che si deformano al nostro passaggio, labirinti surreali, festosi caroselli di morte, ma anche una villa sconquassata in cui ci muoviamo fra sale da pranzo e biblioteche, presi nella morsa terribile di una nostalgia commovente.
In questo viaggio fra novità e ricordo ci accompagna una colonna sonora generalmente dimessa, fatta di note tremule e acuti in sordina, di squallide sinfonie gracchianti che entrano sotto pelle, mescolandosi di tanto in tanto con le note presaghe dei brani di musica classica. E' un lavoro sottile e scrupoloso, quello del tessuto musicale di The Evil Within, che sa quando è il momento di lasciar spazio ai rumori e quando invece bisogna sottolineare l'ansia della corsa e dell'affanno.
Il doppiaggio italiano è discreto, ma il titolo di Mikami è comunque generalmente taciturno.
The Evil Within è la realizzazione più impetuosa della visione creativa di Mikami.
Finalmente autonomo, eppure così attento a recuperare frammenti dalle altre visioni allucinate del game designer, il titolo racconta una storia che mescola momenti stranianti e scontri oppressivi, strani simbolismi ermetici a brutali esagerazioni violente. Raccontato in maniera penetrante ed efficace, l'incubo cruento del detective Castellanos finisce per entrare nella testa, così come le immagini e le bestie che in esso si muovono. Dall'horror di matrice nipponica a quello più esplicito di stampo americano, Mikami cannibalizza il genere, infilando poi nell'avventura tributi e citazioni al survival videoludico dei tardi anni '90.
E proprio da quell'epoca emerge pure il gameplay: l'inquadratura asfissiante, i movimenti pesanti, l'ansia per ogni colpo sparato. Sono ritmi che, inaspettatamente, funzionano ancora alla grande, finalmente diversi da quelli dei tanti action in terza persona che sembravano aver ucciso il genere.
Di tanto in tanto, quando gli assedi si fanno prolungati, si avverte che qualcosa scricchiola, perché la formula si sposa meglio con l'esplorazione tesa e inquieta che non con le sparatorie prolungate.
Mettendo in conto pure una struttura molto rigida, con una divisione in capitoli indipendenti, The Evil Within resta comunque una grande prova di game design. Più che spaventare, il titolo trasmette un'angoscia esistenziale, il peso insopportabile della follia, il dolore convulso della malattia. Lo fa coi suoi panorami surreali e con gli spazi claustrofobici, con oggetti-simbolo e trappole soprattutto mentali, finendo per raccontare una parabola di tormento e miseria. The Evil Within è come un frammento vitreo infilato nel cervello, che diffonde un dolore subdolo e continuo: una fitta atroce che non sentivamo da troppo tempo.
VOTO GLOBALE 8,5
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