lunedì 28 luglio 2014

The Last of Us Remastered: Recensione




C'è un momento, in The Last of Us, in cui Joel ed Ellie si fermano di fronte a un panorama irreale. Chiusa nello spazio soffocante di una metropoli distrutta, tra le reliquie di cemento di un'umanità che non esiste più, si estende ormai senza fatica una chiazza improbabile di verde, e un branco di giraffe si allontana dondolando nell'aria placida.
E' un attimo di calma costretto a svanire, come tutte le cose belle nel mondo impietoso costruito da Naughty Dog: ma è in quell'attimo che tutto finisce. Si distendono i muscoli, i nervi si allentano, svanisce la tensione; e pure le note dell'accompagnamento musicale smettono di trascinarsi -magnetiche e avvolgenti- in quei vibrati profondi e cavernosi che si sforzavano di riempire la vacuità di un'esistenza perduta.
C'è pace.
Non è quello il momento più bello di The Last of Us: così tradizionale nell'esibita epifania di un animale-simbolo, indulgente come nessun'altra scena. Ma è quello l'approdo del viaggio dei protagonisti, la fine dei tormenti e degli affanni, il punto di non ritorno.
Qui si capisce, insomma, che Ellie ha contagiato Joel con la sua curiosità da adolescente, ma soprattutto che Joel ha trovato quello che cercava da vent'anni: un motivo per resistere. Scollato finalmente da quell'inerzia esistenziale che l'ha tenuto in piedi per più tempo di quanto desiderasse; forse -addirittura- libero dai ricordi. Per lui, Ellie è la salvezza, e il resto non conta. Non conta la speranza degli uomini, perché nel mondo di The Last of Us tutti meritano l'estinzione; non conta conta la possibilità di trovare di nuovo un accordo -anche se flebile e temporaneo- con la natura omicida. Per conservare il ricordo di quell'attimo così prezioso, per salvare l'illusione che pure Ellie possa avvertire un guizzo di amore filiale, Joel farà quello che deve.


The Last of Us, prima che un videogioco, è una storia fatta di momenti come questo.
Raccontata con una lucidità brutale, tenuta in piedi da una regia sintetica ed essenziale, la trama diThe Last of Us ha un peso quasi inumano. E' cattiva, diretta, onnivora: coi suoi silenzi da brivido consuma personaggi e sentimenti, consuma lacrime, rimorsi, eroismo: tutto schiacciato dalla consapevolezza che alla fine non resterà nulla, se non uno sbuffo di spore, rigurgito dolce e leggero di un corpo martoriato, dissipato dal vento e senza più nessuno che possa respirarlo.
E per via di questa sua capacità di sbarazzarsi della speranza, che The Last of Us è profetico: questa sua integrale rinuncia all'empatia usualmente necessaria in un videogioco ci consegna protagonisti alle volte disumani, feroci, di un egoismo terrificante. The Last of Us esibisce un cinismo subdolo e drammatico, che viene però giustificato e motivato, in un continuo rilancio di situazioni strazianti, acute e violente.
Un anno dopo la sua uscita, tutto è ancora lì: ogni scena, ogni dialogo, ogni rantolo, ogni sacrificio, ogni bugia. L'edizione Remastered non fa altro che risbatterci tutto in faccia, ancora una volta senza cura, con la stessa violenza e una nuova alchimia di luci e colori.

The Last of Us non racconta soltanto il viaggio di Joel ed Ellie. Attraverso i suoi panorami, il titolo ci mette di fronte al declino sociale ed umano della catastrofe. La barbarie dell'infezione si manifesta nelle stanze contaminate dalle spore, nei cui angoli si ammassano schifose costruzioni funginee.
Le zone di quarantena ormai abbandonate conservano i residui della follia, testimoni della fuga disordinata, della disperazione. Nelle case delle cittadine di campagna, passate al setaccio dagli sciacalli, rimane un pulviscolo di ricordi perduti, che albergano nelle fotografie e nelle lettere.
I corpi appesi per le strade riferiscono il triste destino dei soldati colti alla sprovvista dalle pattuglie di predoni, mentre i resti carbonizzati delle pire di infetti attestano la difficoltà della sopravvivenza.
Nel suo viaggio attraverso gli avanzi marciti di un'America sconfitta, The Last of Us si sforza di proporre elementi di forte originalità. Gli ambienti che il giocatore attraversa vogliono essere poco consueti, marginali, tristi. Un museo di provincia, una cittadina in collina, una centrale idroelettrica sulla riva di un fiume. Solo di tanto in tanto i frammenti e le spoglie della grandezza perduta affiorano, nei grattacieli di Boston che si baciano poggiandosi uno sopra all'altro, o nei cortili di un enorme campus studentesco, o ancora nei ponti e nei sottopassi intasati dalle macchine abbandonate.

C'è insomma una storia visiva, dentro la storia di The Last of Us: fatta di scorci, panorami, scenografie. Una storia che non resta mai in disparte, ma viene fortemente esibita proprio per la pressante necessità, che il giocatore sente, di esplorare ogni angolo. E' questo racconto puntiforme che esce rinvigorito dal "lifting" dell'edizione Remastered, sicuramente completissima in quanto a contenuti ed eccezionalmente curata sotto il profilo tecnico. Non si può dire che l'operazione di riscrittura trasformi il titolo e lo renda migliore. Più semplicemente, lo aggiorna e ce lo riconsegna abbastanza in forma da non sfigurare sul nuovo hardware.
Poi, sul fronte ludico, la storia è sempre la stessa: The Last of Us parte dalle basi di un action gamemolto classico nello schema di controlli e nella visuale in terza persona, e fin da subito mostra la volontà di concentrarsi soprattutto sulla gestione delle risorse e sull'improvvisazione. La dinamica di "scavenging", ovvero il recupero di materie prime nelle ambientazioni, permette di accumulare una serie di oggetti che possono essere utilizzati per cavarsi d'impaccio. Pochi proiettili, mattoni raccolti da terra, stracci e qualche bottiglia di alcool. Forbici e coltelli recuperati in giro e un po' di nastro isolante.
A partire da quello che abbiamo a disposizione bisogna pianificare bene come superare una zona pericolosa, infestata dagli infetti oppure presidiata dalle pattuglie di sciacalli e predoni. Un colpo di pistola, ad esempio, può mettere fuori gioco un nemico, ma avvertirà gli altri della presenza di Joel. Meglio allora un assalto furtivo: procedere acquattati e strangolare gli avversari umani è un'opzione percorribile, ma con i Clicker le cose non sono così semplici. Si tratta di uomini allo stadio avanzato dell'infezione: il cervello è ormai esploso, le concrezioni micotiche hanno spaccato il volto, aprendosi in cappelli arancioni. Sono esseri ciechi, ma resistentissimi. Per ucciderli c'è bisogno di un piantargli in testa un coltello di fortuna, magari costruito sprecando una lama e del nastro adesivo. Le stesse risorse potrebbero essere usate invece per potenziare un bastone recuperato a terra: saldando una forbice alla mazza potremo uccidere un nemico in un solo colpo, evitando che l'arma si rovini in fretta. The Last of Us ci chiede insomma di scegliere come sfruttare i materiali raccolti nell'esplorazione delle location, pianificando un assalto ben congegnato e rispondendo rapidamente alle minacce.
In generale il sistema permette una buona varietà di approcci, che si moltiplicano con il passare delle ore. Imparando a costruire nuovi congegni, dalle bottiglie molotov alle mine di chiodi, è davvero possibile strutturare una strategia sempre diversa per affrontare le situazioni. Analizzato in maniera distaccata, è innegabile ammettere che il titolo resti fossilizzato sulle stesse soluzioni, mescolando in linea di massima sparatorie e momenti stealth. Eppure, grazie ad un ottimo dinamismo interno, che ci propone spesso e volentieri scene, atmosfere e situazioni che deviano dalla norma, oppure ambientazioni meno lineari in cui trasformarsi in predatori calcolatori e letali, The Last of Us supera ogni incertezza.
Uno degli aspetti più riusciti del gioco è senza ombra di dubbio il senso di estrema precarietàtrasmesso in ogni momento. Dando un'occhiata alle scorte limitate che possiamo trasportare nello zaino è facile essere assaliti da uno stringente stato di ansia. L'urgenza di recuperare risorse ed oggetti che possono tornare utili in fasi critiche spinge quindi ad esplorare ogni angolo delle aree di gioco, facendo sì che The Last of Us superi le trappole di una linearità che è propria di tutti i titoli fortemente incentrati su una progressione narrativa inquadrata e ben diretta.

The Last of Us Remastered resta The Last of Us. Si può obiettare che il mercato abbia bisogno di nuove idee, che ripubblicare un titolo appena un anno dopo la sua uscita metta ancora più in luce la colpa terribile di una retrocompatibilità non garantita; e dire magari che non vale la pena tornare ad inseguire Joel ed Ellie da una costa all'altra dell'America.
E invece no: ne vale la pena, nonostante tutto. Nonostante una linearità che ancora dissemina qua e là le sue trappole, nonostante combattimenti concettualmente molto ripetitivi, nonostante le piccole storture dell'Intelligenza Artificiale che neppure l'opzione “Realismo” ha saputo scacciare del tutto: The Last of Us resta ancora dov'era. Al vertice di quel filone narrativo del videogioco che raggiunge con il lavoro di Naughty Dog la sua più piena maturazione.
The Last of Us è un gioco smisurato, perché intreccia un racconto spietato e indimenticabile con una “narrazione ambientale” che esibisce tutti i dettagli di una catastrofe umana. Attento ad esplorare registri diversissimi, The Last of Us non si inventa niente sotto il profilo delle meccaniche ludiche: prende invece una struttura classica e la espande, lasciando poi che il giocatore possa interpretare ogni scontro come meglio crede. Diciamoci la verità: non è mai stata questa, l'eccellenza del titolo Naughty Dog, e non lo è adesso in questa versione riveduta e corretta.
Qui ci sono, semmai, i 60 frame al secondo, che al netto di qualche rallentamento si fanno notare agli occhi dei più attenti; ci sono effetti di luce che risvegliano le atmosfere di gioco, texture più definite in quasi ogni situazione. E i modelli poligonali dei protagonisti che lasciano di stucco, anche a fronte di alcune sequenze che invece evidenziano la genesi “old-gen” del materiale originale.
Ma ancora, non è questo che conta: non importa il solido impegno tecnico, gli altissimi valori produttivi di questa riedizione, il fatto che The Last of Us, adesso, non sfiguri su PlayStation 4.
Quello che resta è il racconto. Che riesce ancora a farci piangere, arrabbiare, urlare dentro. Che scuote ogni nostra convinzione con queste sue cesure violente, col nero invadente dello schermo che rivela una grandiosa economia narrativa. The Last of Us, un anno dopo, insiste ancora ad essere smisurato, poetico, spietato. E allora insistiamo anche noi, con voti che molti continuano a considerare esagerati.
La verità è che pure The Last of Us è esagerato: perché va oltre ogni cosa che si sia vista fino ad oggi, e racconta una storia che resta. Anzi: che resta ogni volta. The Last of Us, scrivevo un anno fa, è “un videogioco che esalta, emoziona, fa palpitare; che restituisce al giocatore la sua centralità, ed ai personaggi l'indipendenza della loro visione”. Oggi, in questa sua nuova e scintillante edizione, si lascia rigiocare e rileggere, oppure si lascia scoprire per la prima volta in modo che nulla sia come prima.
Prendete questa riedizione come una scusa, o magari come la prima occasione per giocare a Left Behind, allo stesso tempo prologo e chiosa delle vicende, e ancora una volta grande esempio di narrazione interattiva (ammantato però da una poetica esistenziale tutta diversa, avventata come i baci di un'adolescente, amorosa e curiosa).
Qualsiasi sia la vostra giustificazione, fate in modo di rigiocare a The Last of Us, perchè lo riscoprirete ancora bellissimo e terribile. Vi insegnerà di nuovo che l'amore è in fondo un atto di egoismo, e che non sempre esiste una seconda possibilità sulla terra: alle volte -quando tutto è perduto- bisogna solo godersi l'attimo e lasciare che ogni cosa muoia.


VOTO GLOBALE 10

0 commenti:

Posta un commento

la tua opinione è importante, dicci cosa ne pensi